Scritti

Se gli sponsor invadono gli spazi pubblici

26 ago 2023

Parliamo di costume.

Scritti

Se gli sponsor invadono gli spazi pubblici

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Le maison del lusso conquistano le località balneari più chic. Va bene, ma a me cosa importa se a Capri, in un hotel a cinque stelle, Louis Vuitton firma la zona relax? Il fatto è che non finisce lì. A furia di sponsorizzare spiagge, autobus, piste da sci, palazzi storici e itinerari vari, lo spazio cambia. Complice un nostro bisogno di “totem” identitari. Dunque la questione si fa antropologica. Come si potrebbe altrimenti giustificare, per esempio, il fenomeno della brandizzazione delle spiagge? Perché mai dovrei posare il culo bagnato su una sdraio customizzata Missoni? Forse per distinguermi, ma da chi? Con il crollo degli ideali, spesso derubricati a ideologie, i desideri e i simboli di appartenenza si presentano sotto molte altre forme. A qualche gruppo dobbiamo pur affiliarci, può essere un club o un fan club, un’unione sportiva, un trend alla moda, una marca di abbigliamento, uno youtuber famoso, un life coach, una qualche filosofia spendibile in conversazione, un videogioco interattivo che coinvolga la nostra personalità, un gruppo di rievocazione storica, un hobby qualsiasi ma condiviso. Questo accade per vari motivi, per sano desiderio di partecipazione, per insicurezza individuale, per affermazione narcisistica, per bisogno di socialità, o semplicemente per gioco. Anche solo per poter dire io sono, anzi, noi siamo quelli che, eccetera.
La progressiva invasione degli spazi pubblici da parte dei marchi degli sponsor è problematica. Per esempio certe aiole fiorite sulle rotonde automobilistiche, firmate da ditte di giardinaggio: operazione poco elegante, ma così va il mondo. Non se ne vedono i rischi, né i limiti, alla promozione non ci sono barriere. Succede così che a Roma la scalinata di Trinità dei Monti sia stata “riqualificata” grazie a una donazione di Bulgari di 1,5 milioni di euro. Il privato mette i soldi che il pubblico non ha o non vuole investire, la marca ci guadagna in visibilità, facendo proprio un bene comune, ingiustamente trascurato. Un bene che ha un valore storico e culturale, a prescindere dalla valorizzazione da parte del mecenate di turno.Dove c’è tanta gente, come nelle località turistiche e sulla spiaggia in estate, c’è mercato, quindi visibilità del proprio marchio aziendale. Non tanto dei prodotti perché quello, sostengono gli esperti, è il vecchio marketing. Oggi si vive appunto di brand, di reputation, di immagine, le cose prodotte alla fine sono secondarie. Curiosamente, vent’anni fa la critica aveva più voce. Penso al best seller No logo di Naomi Klein pubblicato nel 2000, il manifesto della sbrandizzazione. O al saggio La vetrinizzazione del sociale di Vanni Codeluppi che nel 2007 scriveva: “Le marche possiedono personalità ben definite socialmente. I consumatori sono attratti dal gioco di costruzione delle identità che esse rendono possibile”. Circolava poi un istruttivo manualetto intitolato Smarketing di Marco Geronimi Stoll (che si definisce un pubblicitario disertore) dove si legge: “Abbiamo lasciato che comunicazione e marketing diventassero sinonimi, ma è come chiamare addestramento la scuola di Platone (…) o definire rancio l’invito a cena di una persona innamorata. Il marketing vuole vendere qualsiasi cosa più è possibile, lo smarketing vuole vendere la giusta misura di prodotti e servizi che rispettano l’uomo, l’ambiente e la società”.
Dal canto suo l’economista Serge Latouche non si è mai stancato di ripeterlo: “Siamo colonizzati nel nostro immaginario, pensiamo che la società dei consumi sia la società dell’abbondanza, ma nei fatti è tutt’altro. La pubblicità deve renderci infelici di ciò che abbiamo, per farci desiderare ciò che non abbiamo. Così ci troviamo a vivere in una condizione allo stesso tempo di spreco e di scarsità, il che è anche una tragedia per l’ambiente”.
Sapremo uscire dalla vecchia cultura piazzista che propina modelli e spaccia futilità per prestigiosi beni di consumo? C’è chi dice sia impossibile, ma non è vero. In Trentino alcune mosse “invasive” sono abortite. Il principale ufficio postale di Rovereto, il cui atrio qualche anno fa era diventato un mercato con banchetti, offerte speciali, merci di ogni genere anche davanti agli sportelli, è ritornato sobrio. Vuoto. Funzionale. Come fosse passato qualcuno con la Q maiuscola a dire basta, via tutto! E dalle stazioni ferroviarie sono spariti i monitor che sparavano pubblicità nei sottopassi e sui binari. Come mai?