Scritti

Morire da soli nel bosco

11 apr 2021

Parliamo di antropologia, morte.

Scritti

Morire da soli nel bosco

L'Adige 11 aprile 2021

Morire da soli. Meglio in un bosco o in ospedale? Nel bosco, personalmente non ho dubbi. Certo dipende anche dalle cause e dalle circostanze. Cronache recenti, in Trentino, hanno comunicato il ritrovamento, dopo mesi, dei cadaveri di persone allontanatesi da casa e scomparse. Si tratta di ritrovamenti fortuiti da parte di escursionisti, in forre, ai piedi di burroni o in altre zone impervie. Non per minimizzare la tragedia, ma forse non è stata la fine peggiore. Posto, beninteso, che fosse un'ultima uscita deliberata. Nel capolavoro di Arthur Penn Little Big Man (Il piccolo grande uomo, 1970) c'è una scena indimenticabile, quando il vecchio capo degli indiani Cheyenne di nome Vecchia Capanna (per gli americani Old Lodge Skins) pronuncia le celebri parole: "Oggi è un buon giorno per morire". Dopodiché si sdraia su una collinetta, in attesa. Ma inizia a piovere, e Vecchia Capanna, scocciatissimo, decide di rientrare al villaggio. Per la verità, ammette spiritosamente, non è soltanto la pioggia a dissuaderlo, ma anche il dolce pensiero della cucina e della morbida pelle di sua moglie.

Come sapere se qualcuno non l’ha cercata apposta una fine solitaria, lontano da allarmi, parenti, camici bianchi e odor di medicine? Non ci sarebbe poi da meravigliarsi. La morte fa parte della vita. La natura si rinnova attraverso la morte degli organismi, degli individui, dei vegetali e degli animali. In realtà siamo sempre morti tutti: si calcolano circa 100 miliardi di persone vissute e decedute, da quando Homo sapiens calca il palco planetario. Ovviamente nel dolore di chi lascia questo mondo. E nella costernazione di chi accompagna una persona cara al trapasso. Perché siamo da sempre impossibilitati a farci una ragione dell’imperscrutabile mistero dell’esistenza. Oggi però dalla morte ci siamo allontanati e l'abbiamo resa un tabù, un fantasma sempre incombente da esorcizzare. In questo modo diventa ancora più difficile accettarla, con semplicità, come la possibile conseguenza di una malattia. Per dirla con una battuta di Woody Allen: “Non è che ho paura di morire. Solo che non voglio esserci quando accadrà". Dunque per questa rimozione, come la chiamano gli psicoanalisti, sferriamo attacchi, combattiamo battaglie, teniamo "alta la guardia" per sopravvivere, come se fossimo militari in guerra. Giusto curarsi, naturalmente, ma non siamo immortali. E accade che prolungare a tutti i costi vite ormai vissute male, deprivate e dolenti sia soltanto ostinazione. Per non dire di terapie e politiche sanitarie dettate più da interessi economici che da sentimenti umanitari.

Una volta la morte era una cosa famigliare, c'era più abitudine alla morte. Vi partecipavano anche i bambini: dai un ultimo bacio al nonno, si diceva, ed era un bacio sulla fronte di un cadavere; non dico fosse una bella cosa, si usava così. Si teneva la salma in casa per tre giorni, per dirghe la corona, cioè per recitare il rosario a beneficio dell'anima del defunto. Tre giorni per dare tempo all'anima di uscire dalla finestra della stanza, che per tradizione doveva rimanere aperta. Ammalarsi e poi guarire o morire a casa propria, nel proprio letto, è sempre stato preferibile per gli anziani. In passato nascere e morire in ospedale era l'eccezione, come mai oggi è diventata la regola?

La paura della morte è la madre di tutte le paure. Paradossalmente i primi ad averne paura sono i cristiani che pure credono, o dovrebbero credere, nella vita eterna. La quotidiana e ossessiva conta dei morti da parte di giornali e tivù, attribuiti a complicanze insorte dopo il contagio da coronavirus, ci accompagna ormai da un anno. Non si può più leggere, non si può più sentire. Lo spaventismo generale, peraltro, non dissipa ragionevoli perplessità: come mai non si conteggiano più i casi di decesso per influenza “normale”? Nessuno muore più di tumore, di malattie cardiovascolari? La quantità dei defunti riempie le cronache, ma non si parla mai della qualità di quelle morti. La tragedia vera è la morte ospedalizzata in solitudine. O dentro case di riposo chiuse per amici e parenti, nel timore del contagio. Tanto prodigarsi per la salvezza dei poveri anziani malati per poi condannarli a un disumano isolamento in fin di vita. Nel bosco, nel bosco.