Scritti

Finte naturali

9 lug 2020

Parliamo di fotografia, montagna, turismo montano.

Scritti

Finte naturali

Articolo pubblicato sul numero 17 della rivista semestrale "L'Alpe - Rivista internazionale di cultura alpina", edita dalla casa editrice piemontese Priuli & Verlucca (inverno 2007/2008)

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Se esistono belle ragazze proposte come playmate, esistono belle montagne apparecchiate come playmountain. Rappresentate per incantare. Imbellettate, incerottate, incipriate, riprese dal versante migliore, e se non bastasse poi anche ritoccate in Photoshop: un po’ di luce in più, una ravvivatina delle tinte, un po’ di contrasto, eccetera. In tema di montagna le cose non cambiano. Sappiamo benissimo che le playmate del mese hanno (oltre a una vita difficile) anche normali pose sgraziate, fugaci espressioni idiote, impresentabili istanti di goffaggine. Che non finiscono sulle copertine. Così come sappiamo che in certi momenti vissuti le nostre donne (e i nostri uomini, il discorso vale anche per i modelli, non soltanto per le modelle) possono darci felicità e intensità maggiori di una qualsiasi bellezza patinata. Immagino che tutto questo valga per la montagna, immortalata e promossa. Non fosse che le foto promozionali poco si attagliano alla montagna. Lo stesso fatto di promuovere la montagna evoca un mondo di proverbi e paradossi, la montagna non si promuove, la si lascia stare, santo cielo, siamo noi che ci promuoviamo verso la montagna, casomai.Eppure ci caschiamo. Soprattutto noi uomini che siamo così visivi, a differenza delle donne che ascoltano. Noi maschi panoramici. Panorama è una parola composta che ci riporta all’occhio: viene dal greco pan, tutto, e hórama, vista. Al dio dei boschi Pan piaceva guardare dall’alto, togliersi dal folto e dominare. Agli uomini, viaggiatori, turisti e alpinisti è sempre piaciuto guardare. Non è dunque un caso che Phileas Fogg veda tutto prima di partire. Il già visto è precisamente la condizione esistenziale di homo turisticus, un aspetto che si consolida con i pittori vedutisti del Settecento. Prima del turismo si partiva per l’ignoto. Poi si parte per il noto.
Lo scopo principale del turismo è visitare le cosiddette attrazioni, che nel mondo tedesco sono chiamate con una sola, fenomenale, parola: Sehenswürdigkeiten, “cose che vale la pena vedere”. L’ossessione dei viaggiatori per tutto ciò che è noto fece la fortuna delle guide Baedeker e dei loro asterischi, apposti accanto al nome delle principali attrazioni, cioè i must della visita. I perentori asterischi dei Baedeker, cui generazioni di turisti si sono assoggettati, sono precisamente il videndum, ciò che deve essere visto. Il sightseeing di matrice anglofona risponde alla stessa esigenza di guardare la bellezza. I luoghi mirabili meritano, appunto, d’essere ammirati, poiché sono meravigliosi. Nei parchi naturali americani vi sono luoghi speciali contrassegnati con un cartello su cui sta scritto view point. I visitatori ubbidiscono. Di questo primato della vista è espressione anche una quantità di souvenir visori, ciondoli a forma di binocolini, macchinette fotografiche, cineprese e telecamerine in plastica. Gli oggetti ricordo legati alla riproduzione di immagini del luogo - veri e propri panorami in scatola - sono stati concepiti in maniera anche più fantasiosa. Per rimanere in ambito montano, negli anni ‘60 andavano forte le casette alpine con mirino a finestrella attraverso cui, schiacciando il comignolo, si attivava un piccolo diorama. Cartoline. Le prime, a stampa, recavano sovraimpresse al paesaggio stereotipate enunciazioni di circostanza: “Saluti da...”, “Qui tutto è bello e sognante”, “Paesaggio incantatore”.
E’ cambiata la percezione della montagna? E’ cambiata la maniera di fotografarla? Se per esempio pensiamo ai formidabili monti in bianco e nero dell’American West di Ansel Easton Adams, e poi agli spazi rarefatti e filosofici del sudtirolese Walter Niedermayr, e poi ancora alle terrazze panoramiche, con sedie a sdraio affacciate sul sublime, di Leo Angerer, evidentemente lo sguardo appare diverso. E’ presente a se stesso, più self conscious, più consapevole e autoironico. Senza mai smettere (di sperare) di essere incantato. Perché alla fine la nostra grande paura è quella del disincanto del mondo. Torneremo delusi dal trekking? Le cime innevate sfiorate dalle dita rosa dell’alba somiglieranno a quelle del servizio sul National Geographic? La delusione rispetto alle aspettative sta in agguato.
Che le meraviglie del mondo tradiscano le aspettative, lo conferma del resto un sondaggio effettuato quest’anno in Gran Bretagna dalle assicurazioni di viaggio Virgin Travel: “Brits left cold by tourist hot spots”, letteralmente inglesi freddi davanti ai luoghi caldi. Li si immagina mozzafiato, pieni di atmosfera e suggestioni, come le sette meraviglie devono essere state per gli antichi. Si risparmia tutto l’anno per andare a vederli, e poi si resta indifferenti, se non amareggiati. I luoghi famosi sono sovraffollati, trasandati, costosi, disneyzzati, mercificati. In effetti i commenti fatti dagli intervistati nel sondaggio spesso si non riferiscono tanto al monumento in sé, quanto al contesto. Commenta giustamente la giornalista di Repubblica Cristina Nadotti: “In realtà non sono i siti a deludere i visitatori ma ciò che sta loro intorno, il modo in cui il luogo nell'insieme viene presentato. Ma se alla fine le mete tanto agognate deludono è colpa anche di quegli strumenti del pensiero globale che finiscono per essere i libri e i cataloghi di viaggi, guide che conducono tutti in uno stesso luogo, nello stesso momento, come se si dovesse timbrare un cartellino di presenza”.
Da questo punto di vista il discorso si fa generalissimo. Se il ragionamento sulle foto di montagna si inserisce nel discorso più grande del cosa e del come fotografare, il problema della delusione non riguarda soltanto la destinazione turistica/alpinistica, ma ben altro: ospedali, istituti di ricerca, mezzi di trasporto, prodotti di consumo, persino persone: le loro foto sul web appaiono brillantissime, le realtà sono spesso diverse: banali, se non dimesse. Da quando l’immagine delle cose è divenuta mercato, marketing, la loro riproduzione è scatto coatto, gesto obbligato e compulsivo. La fotografia e la videoripresa delle gite o delle vacanze costituiscono (come un tempo le cartoline) altrettante prove di consumo. Scriveva la saggista americana Susan Sontag, On Photography (1973): “Per la prima volta nella storia, grandi masse di persone abbandonano regolarmente, per brevi periodi, il loro ambiente abituale. Sembrerebbe loro innaturale partire per un viaggio di piacere senza portarsi una macchina fotografica. Le fotografie dimostreranno in modo indiscutibile che il viaggio è stato fatto, che il programma è stato attuato, che il divertimento è stato raggiunto. Esse documentano sequenze di consumi effettuati lontano dalla famiglia, dagli amici e dai vicini (...) L’attività del fotografare è calmante e placa quella sensazione di disorientamento che i viaggi rischiano di esacerbare. Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra se stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. E’ un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando. Quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi, può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare”.
Prima della Sontag, Italo Calvino aveva capito tutto. Nel suo racconto intitolato L’avventura di un fotografo (1958) lo scrittore proponeva la vicenda di Antonino Paraggi, di mestiere fattorino ma per atteggiamento mentale filosofo, il quale, stupito dalla mania fotografica che sembra essersi impossessata dei suoi amici, cerca risposte al fenomeno, rimanendone, a sua volta, vittima. “Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate (...) e solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quel riflesso di sole sulle gambe della moglie acquistano l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può esser più messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”. In questa maniera, lascia intendere Calvino, il passo che conduce alla follia è breve: “Perché una volta che avete cominciato non c'è nessuna ragione che vi fermiate. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo (...) Basta che cominciate a dire di qualcosa: ‘Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!’ e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita”. Annota in proposito Martino Negri: “Forse Antonino Paraggi è un po’ un rompiballe, ma indubbiamente coglie uno dei tratti più specifici della nostra civiltà, “civiltà dell'immagine”, appunto, nella quale la vita sembra assumere consistenza unicamente nel momento in cui rinuncia al movimento - che è la cifra distintiva del suo essere - per farsi immagine, disposizione di figure nello spazio, figure immobili e immutabili, forme appartenenti al passato (anche se recente, recentissimo), cose morte. Ma è paradossale questo tentativo di fissare la vita che sfugge sulla carta, perché il risultato di questa fuga dalla morte, dall'annullamento o cancellazione dei propri atti, delle proprie forme, acquista immediatamente un sapore funerario e commemorativo” (http://erewhon.ticonuno.it/luglio2004/fotografo.htm). Annotazione che rincara la dose servita al principio degli anni Settanta dal fine analista del fenomeno kitsch, Gillo Dorfles: “Depurate dagli umori, dai sapori, dagli odori che le accompagnavano e le rendevano patetiche o gioiose, satiriche o ironiche, queste immagini quasi sempre si trasformano in larve spente e mettono in luce solo gli aspetti negativi e ridevoli d’un mondo feticizzato e adulterato”. In una vignetta umoristica di Bruno Bozzetto, si vede una coppia appena rientrata da un viaggio, a cui un amico chiede: “Avete passato delle belle vacanze?”. Risposta: “Non so, non abbiamo ancora proiettato le diapositive”. Viene da vergognarsi. Viene tuttavia da chiedersi perché tanto accanimento. Viene quasi voglia di fotografare.
Ma infine chi ha detto che la montagna, come la vacanza, debba essere bella? Bella è un aggettivo generico, troppo largo per sentieri e sentimenti di montagna. Può darsi che l’escursione comandata dal Mito (o dal National) lasci a bocca amara. Può darsi che la montagna vista dal vero non appaia mai bella come quella rappresentata in cartolina. Ma godersela è un’altra cosa.