Scritti

Ci serve l'utopia della nonviolenza

23 dic 2023
Scritti

Ci serve l'utopia della nonviolenza

C’era una volta, o forse ci sarà… I racconti costruiscono realtà. Abbiamo bisogno di narrazioni utopiche, dense di valori e di speranze. Così come gli emigrati trentini in procinto di imbarcarsi avevano bisogno di idealizzare l’America quale paradiso di opportunità. L’opzione nonviolenta non è una vana utopia. Il primo dicembre il Costa Rica ha festeggiato i 74 anni da quando non ha più forze armate; infatti questo Stato centroamericano ha abrogato l'esercito nel 1949 al fine di “spendere di più per istruzione e salute”. Come disse l’allora presidente José Figueres Ferrer “Il Costa Rica deve tornare a essere un paese con più insegnanti che soldati”.
L’archeologa lituana Marija Gimbutas ha postulato l’esistenza di un matriarcato che nell’antica Europa avrebbe preceduto l’invasione da parte di una civiltà di allevatori e guerrieri, dotati di armi da getto per offendere a distanza. Secondo la studiosa esiste ancora un diffuso culto pre-patriarcale, quello per la Dea Madre/Madonna, che sta a dimostralo. Ora, è possibile che questa sia soltanto una narrazione (e diversi colleghi l’hanno sostenuto), ma che cosa alla fine non lo è? La verità della Storia è sempre quella narrata dai portavoce dei vincenti. E una cultura pacifica a quanto pare non ha ancora trionfato.
In questi giorni molti scienziati sociali e osservatori internazionali si stanno esprimendo a favore di un cessate il fuoco nella striscia di Gaza, dove com’è noto è in corso una tremenda rappresaglia ai danni della popolazione palestinese civile. Una strage testimoniata dalla Croce Rossa e dai Medici senza frontiere, condannata dall’Onu, da Amnesty International e anche dalla Associazione europea degli antropologi sociali (Easa). C’è chi ritiene che non sia compito degli studiosi invocare pace e giustizia, perché i “professori” dovrebbero limitarsi ad analizzare, senza giudicare e senza schierarsi. Ma il sapere critico, l’impegno sociale e l’etica, a mio parere, devono accompagnare sempre chi ha responsabilità di formazione e di informazione, a tutti i livelli.
Nella prefazione al best seller di Marija Gimbutas (intitolato Il linguaggio della Dea), lo storico delle religioni e mitologo americano Joseph Campbell scriveva: “È impossibile non avvertire, nel momento in cui appare questo libro, l’evidente rilevanza di una generale trasformazione delle coscienze”. L’auspicio è che si apra un’effettiva epoca di armonia e di pace “in consonanza con le energie creative della natura”, come nel periodo preistorico, durato circa quattromila anni, che ha preceduto l’affermazione di una cultura gerarchica e guerriera. La quale poi si è espansa in molte parti del mondo e a tutt’oggi prevale. Uno scenario cupo, un incubo planetario da cui, osserva Campbell, “è giunta l’ora che questo nostro pianeta si desti”.
La retorica di un mondo migliore sta su molte e diverse bocche. A parole tutti sono d’accordo, ma quale tipo di mondo prefigurare e quale strada intraprendere per raggiungere l’obiettivo? Ci stiamo abituando, per esempio, a pensare che ogni problema abbia una soluzione tecnica, che le nuove tecnologie potranno regalarci la felicità. Ma a monte dei prodotti, degli assetti economici e degli algoritmi stanno sempre scelte, umane e politiche. Progetti pensati all’interno di sistemi di pensiero e di valori. Se oggi non abbiamo ancora una sanità pubblica gratuita svincolata da logiche di mercato, se oggi l’istruzione non è alla portata di tutti i giovani del mondo, se industrie minerarie, produzioni industriali e trasporti inquinano il pianeta, se il rispetto dei diritti umani rimane spesso sulla carta, se i rapporti con i nostri fratelli animali sono ancora improntati a violenza e sfruttamento, non è una fatalità. Sono tutte conseguenze di quella mentalità che squalificò anche il motto peace&love dei cosiddetti “figli dei fiori”, affermando valori paradossalmente più importanti della concordia e dell’amore.
Un paradosso che ha spinto lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ad accampare invece un “diritto al delirio”, cioè all’utopia. E così l’anno prossimo, immagina Galeano, le persone non saranno guidate dall’automobile, non saranno programmate dal computer, non saranno comprate dal supermercato. I cuochi non crederanno che le aragoste adorano essere bollite vive. Gli storici non crederanno che ai Paesi piace essere invasi. Gli economisti non chiameranno qualità della vita la quantità delle cose. Il mondo non farà più la guerra ai poveri, ma alla povertà. In nessun paese saranno arrestati i ragazzi che rifiutano di fare il servizio militare, ma quelli che vorranno farlo.