Scritti

Peste, arioma e terribile doja

6 dic 2020

Parliamo di antropologia, salute,

Scritti

Peste, arioma e terribile doja

l'Adige, 11 marzo 2020

Vaiolo, colera, peste, sifilide, tifo petecchiale. E poi la famigerata doja, la polmonite in dialetto trentino, dojaza se particolarmente grave. Malattie infettive e altri flagelli non sono certo mancati dalle nostre parti, nonostante l'aria buona. Che forse non è sempre stata così buona, se è vero che l'incubo dei cosiddetti miasmi aleggiava come temuta causa della tubercolosi.

Durante la terribile pestilenza del 1348, una delle molte, si scrisse che "gli habitatori fuggendo raminghi si schivavano tra loro come le lepri il cane". Dunque anche il timore del contagio ha sempre penalizzato se non paralizzato la socialità. I malori attaccaticci - el mal che va 'ntorno - sono subdoli, perché sconfinano dai corpi degli afflitti e invadono la collettività. Donde la locuzione tacar la rogna. Senza configurare scenari drammatici come la caccia agli "untori" durante la peste del 1630 descritta da Alessandro Manzoni (un milione di morti su quattro milioni di abitanti in norditalia) lo stigma delle mele marce colpiva gli infermi contagiosi. O presunti tali. Che spesso e volentieri erano individuati negli ebrei e nei forestieri di passaggio, come capri espiatori. Il dramma della malattia tocca nello stesso tempo la persona e la collettività. In passato c'era chi interpretava moralmente le epidemie come castighi dei nostri peccati, al punto che il colera, come quello che colpì il Trentino nel 1836, veniva ascritto alla collera, con due elle, ovviamente un'ira di Dio. Il che non impediva agli empirici villani la ricerca di rimedi semplici, come la bardana per far sfogare il morbillo, o l'erba angelica contro i mali contagiosi in generale.

Naturalmente anche sul piano dei rimedi il popolo è sempre stato creativo e spiritoso. Basti pensare alla ricetta anti tubercolosi che in dialetto suonava così: pirole de galina e sirop de cantina, cioè uova e vino. Una parodia delle terapie praticate negli ospedali, con arsenico e salassi. Macché. Mangiare e bere, finalmente!

Sugli ammorbamenti in Trentino si possono leggere ottimi studi di storia della sanità. Ci sono invece meno informazioni sulle sindromi culturali. Che cosa sono? Facile sarebbe liquidarle come disturbi immaginari. In effetti sono quadri clinici, tipici di un popolo o di una cultura.Vale a dire affezioni che appartengono più al folklore che alla medicina, ma non per questo sono meno reali. In antropologia si parla di sindromi culturali per esempio nel caso della pata de cabra, in Argentina, dove secondo la credenza popolare esistono vermetti verdi che si incistano nel midollo spinale dei bebè, risalendo lungo la colonna vertebrale. In diversi Paesi c'è una sindrome da spavento (espanto o susto, in spagnolo, scantu in siciliano) che minaccia il benessere psico-fisico, come un indefinito male potenzialmente in agguato. L'etnografo Ernesto de Martino si occupò del tarantismo in questo quadro di "crisi della presenza" e di precarietà esistenziale. E si potrebbero fare altri esempi, come quello del Koro, una sindrome culturale caratterizzata dalla convinzione che i genitali maschili si possano ritirare nell'addome fino a sparire del tutto. Una "malattia" che in Cina e nel Sudest asiatico ha provocato qualche crisi di panico collettivo.

Anche in Trentino esiste una patologia regionale che non figura nei libri di medicina. E' il caso dell'arioma, o rioma, una misteriosa infermità che affliggerebbe soprattutto i bambini e sconcerta ancora i medici condotti, soprattutto tra coloro che provengono da fuori. Originariamente l'arioma sarebbe la sindrome del bebè che si è ingozzato di latte materno, rovescia gli occhi e dà di stomaco. Ma più che un problema specifico di interesse pediatrico, l'arioma come categoria lessicale dell'indisposizione è uno stato di agitazione psicomotoria, esplicitato per esempio nella parlata dialettale "Tasi 'n moment che te me fai vegnir l'arioma". Ansia, confusione, ipocondria? Di certo, un malessere difficilmente diagnosticabile.

Avere una bella cera è la diagnosi popolare più certa, e la qualità dell'alimentazione ha sempre influito su questa benedetta "cera". Basti pensare alla pellagra, che era causata da una dieta poverissima di vitamine, perlopiù a base di sola polenta. Per inciso, anche la pellagra era una patologia che alterava sia l’aspetto, sia la mente dell’ammalato. Nel Medioevo la durata media della vita era di 45 anni. Un tempo si moriva e basta. Di che cosa si moriva, poi, non era tanto importante. Che cosa diavolo gli sarà capitato? Aveva ben l'aspetto mez malà. Un brutto male se l'è portato via. L'arioma fortunatamente non è letale, ma forse contagioso sì. Un po' come l'ansia.

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