Scritti

Antropologia del ping pong

19 dic 2020

Parliamo di antropologia, sport.

Scritti

Antropologia del ping pong

Ticino7, 5 gennaio 2018

Gigante contro bambina, vince la bambina. Campione emotivo contro giocatore normale, vince il secondo. E poi altri paradossi, per esempio se Tizio è più forte di Caio, e Caio batte Sempronio, com’è possibile che Sempronio vinca giocando contro Tizio? Eppure accade, e anche spesso. Strano gioco il ping pong. Mi correggo, volevo dire strano sport il tennistavolo (così nel lessico delle federazioni e delle competizioni). Una pratica che ricorda ricreazioni da vecchio oratorio, tipo calcetto. A torto.
Il ping pong è uno sport fulmineo, dialettico, imprevedibile, molto «di testa», dicono i cultori. Come giocare a scacchi correndo i cento metri. Di velocità mentale. Sicuramente di grandissima concentrazione. Perché se al tavolo hai la testa altrove, la butti fuori. E alla fine non vince tanto chi la butta in campo avversario e fa punti spettacolari, ma semplicemente chi non sbaglia, o sbaglia meno, o induce a sbagliare l’altro. Insomma, è un gioco tattico: l’avversario può essere più abile di te, ma se sei attento e ben concentrato puoi vincere comunque perché capisci il suo gioco, i tiri di dritto o di rovescio che danno fastidio, le palline tagliate che mettono in difficoltà, le battute che l’altro non sa «leggere». E intanto impari a rispondere per le rime.
Tra gli avversari non c’è contatto fisico, una rete separa le rispettive pertinenze, in fin dei conti si tratta di invadere simbolicamente il campo altrui con una pallina che pesa meno di tre grammi. Ecco perché il ping pong è diventato metafora politica della negoziazione (lo scambio di visite fra campioni americani e cinesi agevolò, negli Anni Settanta, la distensione fra le due potenze). Osare, affermarsi, ricevere risposta, controbattere insidiosamente, prendere le distanze, difendere il campo, ributtarla di là a proprio vantaggio, ma senza esagerare. Gli psicologi le chiamerebbero dinamiche di relazione. Per l’antropologo sono territorialità antagoniste e simulazioni di conflitti.
Certo, per avere successo occorre impegnarsi parecchio, perché la padronanza della racchetta e della pallina sono fondamentali. Non per nulla i campioni asiatici crescono allenandosi sin da bambini con robottini che scagliano migliaia di palline a raffica, in maniera regolare e regolabile: un grande esercizio di quantità, prima di cominciare a lavorare sulla qualità. Gli anni di palestra pagano, i giocatori metodici la spuntano quasi sempre sui fantasisti: in finale del Campionato mondiale juniores di Riva del Garda in Trentino, svoltosi lo scorso dicembre (arbitro lo svizzero Gabriele Chiari), hanno trionfato ragazzine e ragazzini cinesi. Specchio del futuro assetto geopolitico del Pianeta, potrebbe azzardare qualcuno. Le persone che praticano il tennis da tavolo a livello mondiale sono 300 milioni, una cifra che lo proietta tra gli sport più diffusi in assoluto. Altro che oratorio.

STORIA E DIFFUSIONE
Codificato nel 1884, il ping pong deriva da antichi giochi medievali come il jeu de paume, o pallacorda, poi evolutisi in tennis, squash, badminton e affini. Negli anni il gioco ha subìto grandi variazioni, oltre che nelle regole, nell’altezza della rete, nella dimensione delle racchette e nei materiali utilizzati per le palline: dapprima sughero, poi gomma, infine celluloide. Già un secolo fa il ping pong andava affermandosi, ancorché chiamato con nomi diversi: whiff waff (in America), parlour tennis, pim-pam, tennis de salon e molti altri. I primi campionati del mondo si svolsero nel 1926, anno di nascita della Federazione internazionale di tennis tavolo (ITTF). Negli anni Cinquanta del Novecento Mao Tse Tung decretò il tennistavolo sport nazionale, sicché ne fu incoraggiata la diffusione in tutta la Repubblica Popolare Cinese: e così dal 1988 in poi, su 28 medaglie d’oro olimpiche gli atleti cinesi (seguiti da giapponesi e coreani) ne hanno vinte 24.

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